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Comunicato Stampa

Radioattività in alto mare

L’oceano è diventato la pattumiera dell’umanità e plastica, metalli pesanti, fertilizzanti e altri pesticidi non sono gli unici a inquinare il mare (1).

FotoUN TEMUTO NEMICO INVISIBILE
La radioattività è un nemico subdolo che spaventa più di altri perché non ha colore, odore o sapore, ma può essere letale. Chi ha visto la miniserie televisiva Chernobyl (2), sicuramente ricorda la scena in cui i primi operai inviati a controllare i danni sul reattore cominciano a sentire in bocca un sapore metallico.
Questa percezione non dipende dal fatto che le radiazioni abbiano realmente un sapore, ma è dovuta ai danni provocati dalle radiazioni elevate ai nostri apparati sensoriali. Per rilevare la radioattività sono necessari dispositivi e apparecchiature specifici.

CHE COSA CAUSA LA RADIOATTIVITÀ DI UN ELEMENTO E COME LA SI MISURA?
La radioattività è dovuta all’instabilità dei radionuclidi naturali e artificiali che, per ridurre l’energia in eccesso, liberano vari tipi di particelle e radiazioni (3) trasformandosi gradualmente in altri elementi chimici più stabili.

Per valutarla quantitativamente si impiegano varie unità di unità di misura.

Le tre più utilizzate indicano:

• l’attività, cioè il numero di decadimenti radioattivi che si verificano in un secondo per un determinato nucleo e si misura in Becquerel (1Bq= 1 decadimento al secondo);
• la dose, che valuta la quantità di energia assorbita dall’unità di massa di un materiale inerte o biologico e si esprime in Gray (1Gy= assorbimento di 1 Joule di energia per 1kg di materia);
• la dose equivalente, espressa in Sievert (Sv), che misura il danno biologico provocato dall’assorbimento di radiazioni da parte di un intero organismo vivente, o anche di un singolo organo o tessuto. Questo dato tiene conto della differente capacità di penetrazione) dei vari tipi di radiazione e della pericolosità correlata alla radiosensibilità dei tessuti e degli organi colpiti.

QUAL È LA FONTE DELLA RADIOATTIVITÀ NEGLI OCEANI?
Contrariamente al sentire comune, la contaminazione radioattiva delle acque costiere e degli oceani è dovuta a processi che possono essere anche di origine naturale, anche se dal 1945 ha iniziato a diffondersi nell’ambiente via acqua e via aria la radioattività artificiale (o antropica) dovuta all’uso pacifico e militare dell’energia nucleare.

RADIOATTIVITÀ NATURALE
Ha origini cosmiche e terrestri ed è in media la fonte di esposizione radiologica più importante per l’uomo. Al primo tipo appartengono i radionuclidi prodotti dalle reazioni nucleari che si verificano per interazione tra i raggi cosmici (provenienti dal Sole e dalla galassia) e gli elementi chimici presenti nell’atmosfera e che raggiungono la superficie del mare per deposizione. I più abbondanti sono potassio-40 (40K), carbonio-14 (14C), trizio (3H), berillio-10 (10Be), berillio-7 (7Be) e alluminio-26 (26Al); tutti sono distribuiti in modo abbastanza uniforme in tutto il pianeta.

I radionuclidi primordiali ? uranio-238 (238U), uranio-235 (235U) e torio-232 (232Th) ? sono invece di origine terrestre e risalgono alla formazione del sistema solare. La loro distribuzione e concentrazione sono quindi irregolari nei vari giacimenti nel pianeta. Per decadimento radioattivo danno origine a famiglie di radionuclidi che possono essere movimentati dalle acque di dilavamento delle rocce e, attraverso i fiumi, raggiungere il mare.

La radioattività quindi si trova naturalmente nell’acqua di mare e nei sedimenti oceanici, però in mari e oceani tranne casi particolari è geograficamente abbastanza uniforme ed è dominata dal potassio-40 (40K), mentre i livelli di radiazione dei sedimenti, essendo meno mobili, variano in funzione della loro composizione geologica, collocazione geografica e vicinanza a giacimenti naturali di torio e uranio.

RADIOATTIVITÀ NATURALE HUMAN ENHANCED
Con questo termine si indica la radioattività proveniente da attività industriali non nucleari che producono residui in cui si concentrano quantità tali di radionuclidi naturali, come radon-226 (226Ra), piombo-210 (210Pb) e polonio-210 (210Po), da costituire un rischio radiologico. Le fonti maggiori di questi residui pericolosi sono le miniere, le centrali a carbone, gli impianti di lavorazione dei fosfati e quelli per estrarre gas e petrolio offshore.

Quando si estraggono combustibili dai fondali marini (soprattutto in Arabia Saudita, Brasile, Messico, Norvegia e Stati Uniti) è necessario pompare ingenti quantità di acqua di mare nei serbatoi di raccolta per mantenere la pressione costante. I volumi di acqua che entrano ed escono sono ingenti e finiscono per concentrare i radionuclidi eventualmente presenti a causa di giacimenti sottomarini. Non esistono ancora tecnologie in grado di rimuoverli dalle acque prima che siano reimmesse in mare.

La combustione del carbone nelle centrali termiche produce invece ceneri volatili (5) che si arricchiscono di tutti i radionuclidi naturali eventualmente presenti nel minerale. Lo stesso discorso si applica alle attività industriali energivore (2,4 GWh di energia o superiore), in particolare quelle metallurgiche, che impiegano ancora il carbone come fonte primaria di energia.

L’attività mineraria può contribuire al problema della dispersione di materiale radioattivo anche quando il giacimento, accanto al minerale o alle famiglie di minerali (6) che interessano dal punto di vista estrattivo, contiene torio, uranio e loro derivati. Questo si verifica quasi sempre nel caso dei giacimenti delle terre rare che, oltretutto, sono spesso a cielo aperto. L’estrazione e l’isolamento degli elementi più interessanti dal punto di vista tecnologico e commerciale comportano operazioni complesse di separazione che utilizzano reagenti corrosivi o tossici che possono finire nell’ambiente e/o nelle falde acquifere portandosi dietro altri sottoprodotti sgraditi.

Un’altra fonte di materiale radioattivo è la lavorazione industriale dei fosfati, elementi di base per l’industria dei fertilizzanti e di altre produzioni chimiche e alimentari. I rifiuti di lavorazione, costituiti principalmente da fosfogessi, contengono naturalmente radionuclidi provenienti dal decadimento di 238U e 232Th. Un esempio italiano di questo tipo di contaminazione ha riguardato il polo industriale di Porto Marghera che a partire dagli anni ‘60 è stato sede per vari decenni di un’industria che produceva acido fosforico.

I rifiuti, contenenti soprattutto il radionuclide 226Ra, sono stati smaltiti in una discarica della Laguna Veneta, contaminandola in modo importante sino alla fine degli anni ‘70, finché non si sono conosciuti i rischi associati alla presenza di radioattività naturale in questi detriti. Gli studi condotti nel 1998 da ANPA e ARPA del Veneto7 hanno determinato lo stato di contaminazione delle acque e dei prodotti ittici della Laguna.

I risultati indicano che la concentrazione di 210Pb e 210Po nei sedimenti diminuisce man mano che ci si allontana dalla zona di scarico dei fosfogessi, mentre la concentrazione nei molluschi aumenta gradualmente quando ci si allontana dalla fonte di contaminazione, probabilmente a causa delle correnti in laguna e della solubilità dei radionuclidi. In generale, la concentrazione di 210Po, 210Pb e 226R in pesci, molluschi e crostacei è costante quasi ovunque nel mondo (Tabella 1) e deve tenere alta l’attenzione, perché si possono verificare danni dovuti all’accumulo di questi radionuclidi nei forti consumatori di prodotti ittici.

RADIONUCLIDI ARTIFICIALI
La radioattività artificiale si è diffusa nell’ambiente in seguito all’impiego massiccio dell’energia nucleare. La vastità e l’entità delle contaminazioni ambientali dipendono sia dal tipo che dal numero di eventi che le hanno determinate, perché la dispersione di radionuclidi artificiali può essere causata sia da fenomeni che fanno parte della normale attività nucleare (scarico e perdite nelle acque durante il trattamento di scorie nucleari, perdite dagli impianti di raffreddamento dei reattori nucleari) sia da eventi isolati (incidenti alle centrali nucleari, fall-out dei test sulle armi atomiche, incidenti a navi o sottomarini, smaltimento in mare di rifiuti a bassa radioattività).

RADIOATTIVITÀ DA ATTIVITÀ MILITARI
Dall 1945 al 1963 sono stati eseguiti più di 2056 test nucleari, di cui 507 nell’atmosfera che hanno distribuito materiale radioattivo ovunque nel pianeta. Circa la metà (1030) è attribuita agli Stati Uniti, seguiti da Russia (715), Francia (210), Regno Unito (45) e Cina (45). L’esplosione nucleare più potente (1961) è stata quella della bomba russa Tsar a Novaya Zemlya ed è stata 3300 volte più potente di quella di Hiroshima.

I danni compiuti da queste esplosioni si protraggono nel tempo, perché nella fase iniziale gli elementi radioattivi si distribuiscono negli strati superficiali degli oceani, poi nel tempo si mescolano alle acque profonde e sono trasportati verso il fondo. L’analisi della distribuzione verticale di 90Sr e 137Cs nel Pacifico settentrionale indica che questi elementi hanno raggiunto profondità di circa 500m nell’arco di trent’anni, mentre gli isotopi di plutonio sono andati ancora più a fondo. Gli esperimenti nucleari come quelli nell’atollo di Bikini iniziati nel 1946, nonostante i numerosi interventi di bonifica, hanno reso inabitabili queste isole a causa degli alti livelli di radioattività ancora presenti in piante e animali.

Nel 1963 è stato firmato un primo bando parziale dei test atomici che non tutti i Paesi hanno sottoscritto, ma possiamo già vederne. Il salto di qualità c’è stato con il Trattato di Bando Totale delle Esplosioni Nucleari (1996) con cui si sperava di porre una pietra tombale su questo tipo di attività, ma l’attualità ci ricorda periodicamente che si è trattato di un sogno non ancora del tutto realizzato.

Su piccola scala a livello globale, ma non di poco conto a livello locale, ci sono anche gli incidenti occorsi a reattori di navi e sottomarini a propulsione nucleare, spesso affondati insieme al loro carico di bombe. Se la profondità non era eccessiva si è cercato di recuperare almeno gli ordigni, più per ragioni strategiche che ecologiche, ma non è sempre stato possibile (sei casi su otto noti). I contenitori sono quindi a rischio di corrosione e rilascio del loro terribile carico.

Ci sono stati anche parecchi affondamenti di satelliti a propulsione nucleare usati per la sorveglianza oceanica (per lo più Cosmos di fabbricazione sovietica) che seguivano orbite terrestri basse e a volte sono rientrati in atmosfera bruciando e vaporizzando il combustibile nucleare prima di inabissarsi.

DUMPING DI ARMAMENTI E SCORIE
Prima del 1972, in tutto il mondo, rifiuti, fanghi di depurazione e scorie di tipo chimico, industriale e radioattivo erano impunemente gettati in mare. Milioni di tonnellate di metalli pesanti e contaminanti chimici, oltre a migliaia di container di rifiuti radioattivi, sono stati affondati deliberatamente. Dal 1946 al 1992, ben 13 Stati hanno praticato l’attività di sea dumping, ovvero lo smaltimento di rifiuti atomici in mare. Gli Stati Uniti sono stati i più attivi avendo scaricato quasi 90.000 contenitori di materiale radioattivo nell’Atlantico e nel Pacifico, ben presto imitati da altri Paesi, come Francia, Belgio, Paesi Bassi e Unione Sovietica. Anche l’Italia ha utilizzato il mare come discarica gratuita, seppure in misura minore. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IEA), la radioattività da materiale inabissato in tutto il mondo si attesta a circa 85.000.000 giga-becquerel.

Esistono vere e proprie discariche certificate nell’Atlantico, nel Pacifico e nell’Artico. Vicino a Europa, Usa, Cina, Russia e Giappone ce ne sono più di 50, in cui dovrebbero essere stati scaricati almeno 400.000 contenitori di rifiuti radioattivi solidi. Una si trova in una fossa atlantica, a circa 600 miglia dalla Galizia, nel nord-ovest della Spagna, dove nell’arco di trent’anni sono finite circa 142.000 tonnellate di rifiuti radioattivi a bassa intensità (1 milione di curie).

Questi episodi di smaltimento hanno reso gli oceani la più grande discarica di scorie radioattive della Terra, con effetti duraturi sulla salute ambientale e umana. Il Protocollo di Londra, entrato in vigore nel 2006, ha proibito in modo specifico lo smaltimento in mare di qualsiasi rifiuto e materiale. Ma sappiamo c’è molto sommerso, in tutti i sensi.

INCIDENTI A CENTRALI NUCLEARI
Tipici di questi eventi sono il rilascio acuto e la contaminazione diretta dell’ambiente marino o terrestre, che a sua volta diventa una fonte secondaria di inquinamento del mare attraverso i fiumi, il dilavamento del terreno e lo scarico dalle falde freatiche. Il primo e più grave incidente nucleare nella storia dell’Europa occidentale si è verificato nel 1957 nell’impianto di Windscale nel Regno Unito. Il sito ospitava due reattori nucleari a gas senza contenimento per la produzione di plutonio per scopi militari.

Il 7 ottobre in uno si sviluppò un incendio con emissione diretta di radionuclidi nell’aria e dell’acqua usata per raffreddare i reattori (occorsero quattro giorni) che evaporò e fu rilasciata direttamente in atmosfera, creando un’imponente nube radioattiva pari a 1/10 di quella della bomba atomica di Hiroshima. La nube attraversò l’Europa del Nord e la radioattività su Londra (distante 500 km) superò di 20 volte il valore naturale. L’incidente è stato minimizzato dalle autorità come altri simili, o anche, più gravi avvenuti in strutture militari.

Segue l’incidente alla centrale di Chernobyl (1986), in cui la radioattività è stata trasportata via aria e via fiume, mentre lo sversamento più ingente di acqua radioattiva si è verificato l’11 marzo 2011 quando uno tsunami ha colpito le sei centrali nucleari di Fukushima in Giappone, provocando in tre la fusione del nocciolo. Per raffreddare i reattori è stata usata direttamente l’acqua del mare e, a causa della loro particolare ubicazione, non è stato possibile sigillarli, come invece è stato fatto a Chernobyl. Inoltre si sono avute anche perdite dalle piscine di deposito del materiale fissile spento. Il problema, oggetto di controversie anche per le possibili ricadute su commercio e turismo, è stato ed è quello di smaltire l’acqua contenuta nelle mille cisterne installate dalla Tokyo Electric Power (Tepco) per contenere i 200 m3 d’acqua che ogni giorno servono a raffreddare le barre di combustibile radioattivo. Le cisterne sono piene e da marzo di quest’anno hanno cominciato a scaricarle in mare contando sul fatto che dopo il trattamento è rimasto soprattutto trizio radioattivo che si dovrebbe diluire nell’oceano a livelli non pericolosi, forse.

Quando si era verificato negli Stati Uniti l’incidente di Three Mile Island (1979), si scelse di far evaporare lentamente l’acqua contaminata, per poi conferire i residui in un deposito. In ogni caso, quando succedono incidenti di questo tipo, il flusso di radionuclidi nell’ambiente è molto elevato negli anni immediatamente successivi, poi si riduce nel tempo attraverso il dilavamento e il decadimento fisico degli elementi radioattivi.

SCARICO DI SCORIE NUCLEARI DI BASSA ATTIVITÀ
Anche il normale funzionamento delle centrali nucleari ha una sua ricaduta in termini di inquinamento dei mari. Attualmente, le principali fonti di radionuclidi di origine antropica negli oceani provengono da fuoriuscite provenienti da impianti di riprocessamento delle scorie radioattive come Sellafield (è il nuovo nome attribuito all’impianto di Windscale), La Hague e Marcoule (Francia), Trombay (India) e Tokai-Mura (Giappone).

Gli scarichi di La Hague e Sellafield hanno contaminato il mare d’Irlanda e il canale della Manica al punto tale che è possibile trovare tracce radioattive nelle alghe lungo le coste della Norvegia e della Groenlandia occidentale. In particolare, si stima che in un’area di 20 km intorno all’impianto di Sellafield vi sia una quantità di plutonio due-tre volte superiore a quella di tutti i test nucleari nell’atmosfera messi insieme. Anche la concentrazione di tecnezio nei crostacei è risulta circa 13 volte superiore al livello di intervento alimentare fissato dal Consiglio Europeo.

L’IMPATTO DELLA RADIOATTIVITÀ SUGLI ORGANISMI MARINI
Le conseguenze sugli ecosistemi marini possono essere di tossicità acuta, nel caso di eventi accidentali di particolare intensità o di attività belliche di tipo atomico, e/o a lungo termine con danni alla salute degli organismi e perturbazione della catena alimentare attraverso fenomeni di bioaccumulo e bioamplificazione. L’esposizione a radiazioni ionizzanti può causare mutazioni nel DNA degli organismi marini influenzandone la crescita, la riproduzione e la sopravvivenza; inoltre l’assorbimento di radionuclidi può portare a malformazioni fisiche e tumori per le specie che vivono più a lungo e indurre anomalie nel comportamento che ne limitano la capacità di trovare cibo o riprodursi.

I radionuclidi, ovviamente, non sono tutti pericolosi allo stesso modo anche a parità di concentrazione, perché ognuno è caratterizzato da un tempo di dimezzamento (8) differente che può andare da frazioni di secondo per i più instabili fino a miliardi di anni per quelli solo leggermente instabili. Un altro fattore importante è la tendenza ad accumularsi in un organo specifico amplificandone i danni. Un esempio tipico, di cui si parla sempre nei film e serie TV in cui sono descritti incidenti nucleari, è lo iodio-131 (131I), usato anche in radioterapia e nel trattamento di alcune patologie tiroidee, perché ha una predilezione esclusiva per questa ghiandola e un’emivita di 8 giorni. Il trattamento tipico per esposizioni accidentali a forti dosi di 131I consiste nella somministrazione di pastiglie a base di ioduro di potassio che contiene iodio-127 (non radioattivo), che la tiroide umana preferisce allo 131I.

MONITORAGGIO DELLA RADIOATTIVITÀ NEGLI OCEANI
È indispensabile per valutarne gli effetti a lungo termine e garantire la sicurezza ambientale sia in condizioni normali che nel corso di emergenze.

I metodi più utilizzati sono:

a. i rilevamenti da satellite per monitorare aree vaste e remote misurando le radiazioni emesse dalla superficie dell’oceano;
b. i campionamenti in situ utilizzando navi da ricerca con prelievi di campioni d’acqua a diverse profondità e posizioni;
c. le reti di monitoraggio costiere per raccogliere in modo regolare i dati sulla radioattività e identificare eventuali anomalie o picchi;
d. i sensori galleggianti dotati di rilevatori che misurano la radioattività in tempo reale;
e. i modelli oceanografici e simulazioni per prevedere la dispersione degli isotopi radioattivi nell’oceano e identificare le zone a rischio.

UN SUPPLEMENTO DI PENA: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Un aspetto di cui si parla poco è come il cambiamento climatico esaspererà tutte queste problematiche (9). L’aumento delle temperature globali influisce negativamente sull’efficienza dei sistemi di raffreddamento di molti processi industriali, compresa la produzione di energia nucleare. Sappiamo già cosa può succedere a una centrale se, per un qualche motivo, si interrompe o viene danneggiato il sistema di raffreddamento del nocciolo del reattore. A questo effetto va sommato l’intensificarsi di eventi climatici estremi che possono danneggiare strutture strategiche degli impianti.

L’aumento della temperatura delle acque del pianeta associato ai fenomeni di acidificazione mette anche a repentaglio la tenuta dei fusti e dei sistemi di contenimento dei rifiuti radioattivi scaricati negli oceani, perché accelera i fenomeni di corrosione già in atto.

Tra il 1901 e il 2018, il livello medio globale del mare è cresciuto di 1–2 mm all’anno, per un totale di 15–25 cm, ma dal 2010 sta salendo alla velocità di 3,7 mm all’anno (10). Tra il 1993 e il 2018, i fattori che hanno maggiormente contributo a questo fenomeno sono l’espansione termica dell’acqua (42%), la fusione dei ghiacciai temperati (21%) e dei ghiacci di Groenlandia (15%) e Antartide (8%). Questo innalzamento del livello del mare è tuttavia in ritardo rispetto alle variazioni della temperatura terrestre, quindi continuerà ad accelerare fino al 2050 esclusivamente in risposta al riscaldamento già in corso, esponendo decine di milioni di persone al rischio di inondazioni. Tutto questo mette a repentaglio l’integrità di depositi di scorie nucleari come il Runit Dome (Fig.6) nell’atollo Enewetak. La foto (1980) della cupola in calcestruzzo, costruita sopra il cratere del test nucleare Cactus (1958) e diventato il deposito delle scorie dei 65 test atomici eseguiti nelle Isole Marshall dagli Stati Uniti, parla da sola.


Si tratta di una sfida complessa che richiede un approccio multidisciplinare, ma non siamo completamente disarmati purché tutti gli attori coinvolti abbiano la volontà di impegnarsi.
A monte di tutto è essenziale una collaborazione internazionale e la condivisione di conoscenze e risorse attraverso la cooperazione tra paesi, organizzazioni e scienziati. Sappiamo quanto questo sia difficile soprattutto nell’attuale situazione internazionale. Sono già attivi? ma non sempre rispettati? vari accordi per limitare lo smaltimento di rifiuti radioattivi in mare, compreso il divieto del sea dumping.

Per identificare le fonti dell’attività radioattiva negli oceani e adottare misure preventive, la situazione va controllata costantemente. Un contributo importante viene dalle attività di ricerca e sviluppo sia dal punto di vista delle tecniche di monitoraggio e identificazione dei radionuclidi che attraverso lo studio di nuove tecnologie per rimuovere o neutralizzare i rifiuti radioattivi.

Infine, è necessaria un’opera di informazione e sensibilizzazione del pubblico, ma in modo scientifico e non di pancia, e soprattutto non solo sull’onda di emozioni e paure irrazionali scatenate da incidenti di vario tipo.

Fonte: https://www.naturalmentescienza.it/sections/?s=4284#sdfootnote1sym

Bibliografia
1. E. Polo, L’isola che non c’è. La plastica negli oceani fra mito e realtà, Edizioni Dedalo, Bari 2020
2. IAEA, Inventory of radioactive waste disposals at sea, TECDOC-1105, 1999, Vienna, Austria, https://www-pub.iaea.org/MTCD/Publications/PDF/te_1105_prn.pdf
3. A. Leatherbarrow, Fukushima. Il sole si scioglie, Salani, Firenze 2022
4. A. Leatherbarrow, Chernobyl 01:23:40. La storia vera del disastro nucleare che ha sconvolto il mondo, Salani, Firenze 2019

Note
1 Ricercatrice CNR (ISOF) e docente dei corsi di Chimica Metallorganica e di Didattica della Chimica presso l’Università di Ferrara
2 Creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck per HBO e Sky Atlantic (2019).
3 Per una trattazione più dettagliata, ma comprensibile, si può consultare il sito: https://www.lngs.infn.it/it/radioattivita
4 dati del 24/06/2024; https://remap.jrc.ec.europa.eu/Advanced.aspx
5 Ogni anno in tutto il mondo le centrali termiche a carbone liberano nell’aria più di 454 milioni di tonnellate di ceneri volatili a cui va sommata la produzione di tutte le altre industrie che utilizzano il carbone come combustibile.
6 Alcuni gruppi di metalli, a causa della loro natura chimica, sono quasi sempre presenti insieme nei giacimenti, come le terre rare e i metalli del gruppo del platino, metalli indispensabili per l’informatica, la telefonia, la mobilità elettrica e le tecnologie aerospaziali.
7 Le discariche di fosfogessi nella laguna di Venezia: valutazioni preliminari dell’impatto radiologico, ANPA, Roma 2000. (Stato dell’ambiente 8/2000)
8 o tempo di emivita, è il periodo di tempo necessario affinché decada la metà degli atomi di un campione radioattivo puro
9 J.P. Gwynn, V. Hatje, N. Casacuberta et al., The effect of climate change on sources of radionuclides to the marine environment, Commun Earth Environ 5, 135 (2024). https://doi.org/10.1038/s43247-024-01241-w
10 IPCC Sixth Assessment Report, Climate Change 2021, https://report.ipcc.ch/ar6/wg1/IPCC_AR6_WGI_FullReport.pdf



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