SALUTE e MEDICINA
Comunicato Stampa

"Conoscere e Curare il Cuore” 2025, il punto sui temi d’avanguardia della Cardiologia italiana

Certamente è uno degli eventi più attesi nel panorama dei Congressi Medico-Scientifici italiani. Un appuntamento annuale di riferimento per la cardiologia italiana, promosso dal Centro per la Lotta contro l’Infarto – Fondazione Onlus. Il congresso si distingue per un approccio clinico-pratico, focalizzandosi sulle applicazioni concrete della diagnostica e della terapia in cardiologia, con l’obiettivo di migliorare la gestione del paziente cardiologico.

Azienda OspedalieraAnche questa 42° edizione che si è appena conclusa alla Fortezza da Basso di Firenze, come le passate, ha mostrato tutta la sua capacità coinvolgente non tradendo alcuna aspettativa, ed ha interessato un numero sempre maggiore di clinici di alto profilo che si sono confrontati sugli argomenti più critici della Cardiologia. Ha offerto l’occasione di aggiornamento su grandi temi della prevenzione, della cura e della ricerca, così come momenti di confronto sulle novità

Con il filo rosso che lega in modo coerente parole chiave significative ad alcuni tra gli interventi più stimolanti: Vedere è potere, nuovi target - i giovani e gli anziani, obesità e cuore, Linee Guida ESC, tecnicalità e tecnologie, parle che già disegnano ora le dimensioni future della cardiologia italiana e le possibilità potenziate di intervento e cura per i pazienti.

Vedere e potere. Il contributo fondamentale delle tecniche di indagine, imaging e biopsia

La tecnologia ha fatto passi da gigante. Ed oggi ne è disponibile un livello tale da consentire diagnosi sempre più precise, com ad esempio in relazione alla misurazione dell’infiammazione. “Se la riduzione del colesterolo LDL (low-densty lipoprtein) – commenta Francesco Prati (in foto), Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto e Direttore Dipartimento Cardio-toraco-vascolare, Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata - rappresenta un obiettivo certo di prevenzione primaria e secondaria, il trattamento del rischio residuo infiammatorio ha una collocazione clinica più incerta. Nonostante i dubbi terapeutici, la misurazione dell’infiammazione, abitualmente espressa dal valore di hsCRP, è in grado di stratificare il rischio residuo di eventi cardaci nei pazienti con sindrome coronarica acuta o cronica. E su questo le nuove evidenze scientifiche dimostrano che l’imaging può giocare un ruolo importante. La ricerca di segni di infiammazione locale (cardiaca) al posto di marker ematici sistemici può rappresentare un strumento prognostico efficace. L’individuazione del tessuto adiposo epicardico si sta imponendo come una soluzione efficace anche per via della facilità con cui può essere rilevato e qualificato mediante ecocardiografia, tomografia computerizzata (CT) e risonanza magnetica per immagini (RMN), il tessuto adiposo perivascolare sembra essere coinvolto nella stimolazione locale della formazione di placche aterosclerotiche. Correla inoltre con parametri della sindrome metabolica, tra cui l’aumento della circonferenza della vita, l’ipertrigliceridemia, l’iperglicemia ed infine l’aterosclerosi coronarica. La TC-PET con il 68Ga-DOTATATE si propone come una soluzione molto interessante in grado di discriminare lesioni coronariche ad alto rischio. Si tratta di un nuovo marcatore dell’infiammazione aterosclerotica che si lega in modo specifico a recettori dei macrofagi. Tarkin et al hanno dimostrato che il 68Ga-DOTATATE identificava in modo corretto le lesioni di culprit di pazienti con sindrome coronarica Acta ed era in grado di predire la presenza di lesioni ad alto rischio secondo la valutazione CT. Tra le metodiche invasive L’OCT è l’unica con una risoluzione tale da permettere lo studio dei macrofagi. Al momento la misurazione dell’infiammazione con un indice sistemico (hsCRP) è una soluzione ragionevole. In un prossimo futuro tuttavia altri parametri ematici come l’interleuchina 6 potrebbero migliorare l’accuratezza nella diagnosi di infiammazione. E’ probabile che metodiche di imaging non invasivo TC o TC-PET potranno identificare meglio l’infiammazione coronarica, passando dal concetto di flogosi sistemica a quello di infiammazione d’organo”.

I nuovi target. L’ictus criptogenetico: troppi indiziati per trovare in colpevole? Sempre più frequente nella popolazione sotto i 45 anni

Con l’evoluzione della tecnologia, emerge la possibilità di indagare con maggior precisione e rilevare nuove evidenze e target. E’ il caso dell’ictus criptogenetico che, come indica il nome stesso è ancora criptico, ha troppi indiziati per trovare una causa ed è sempre più frequente nella popolazione sotto i 45 anni. L’ictus cerebri – di origine sia ischemica che emorragica – rappresenta un problema evidente per la sanità pubblica, l’individuo affetto e le famiglie del medesimo. Secondo il Ministero della Salute ed i dati pubblicati dall’alleanza cardio-cerebrovascolare, in Italia l’ictus segue solo alla cardiopatia ischemica come causa di morte, risultando responsabile del 10% circa do tutti i decessi.

Ogni anno si registrano in Italia poco meno di 100.000 ricoveri per ictus cerebri, di cui circa il 20% è rappresentato da recidive. Il 20-30% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese dall’evento, il 40-50% entro il primo anno. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, mentre ben il 75% sopravvive , ma con una qualche forma di disabilità. Di questi sopravvissuti con disabilità, circa il 50% risulta essere portatore di un deficit talmente grave da implicare la perdita dell’autosufficienza. L’ictus cerebrale è una entità disomogenea. Questo non solo per quanto attiene la morfologia e la dimensione dell’area lesa, che può essere minuscola come enorme, bensì anche per origine. Circa 9 ictus su 10 sono ischemici, mentre i rimanenti sono emorragici. Tra gli ictus ischemici, quasi un quarto – spesso originante da piccoli vasi – sono di tipo lacunare. Tra i non lacunari, estremamente comune è l’ictus cardioembolico, ma soprattutto – forse sorprendentemente – quello di origine ignota. Malgrado questo, un ictus criptogenetico può avere tanti indiziati e, non di rado, finire con nessun colpevole. Partendo dalla definizione, le Linee Guida dell’American Heart Association e dell’Amercan Stroke Association per la prevenzione dell’ictus in pazienti reduci da un ictus o TIA definiscono l’ictus criptogenetico come un ictus confermato e dimostratamente di origine ignota dopo aver effettuato almeno un imaging accurato, un ecocardiogramma, un monitoraggio prolungato del ritmo cardiaco e gli esami di laboratorio chiave, quali il profilo lipidico e l’emoglobina glicosilata. Le cause da investigare, in particolare, sono numerose: pervietà del forame ovale; fibrillazione atriale occulta; trombofilia; ateromasia aortica; tumori cardiaci; dissezione arteriosa la quale, nella popolazione generale, è causa di ictus ischemico in non più del 2% dei casi. Limitando però l’attenzione a pazienti più giovani (50 anni), questa percentuale può salire fino al 25%. L’età media alla diagnosi è intorno ai 45 anni ed è in genere anticipata lievemente tra le donne, che però manifestano meno comunemente degli uomini questa patologia; neplasie non cardiache; patologie infiammatorie coinvolgenti i grandi, medi e piccoli vasi.

Obesità e malattie cardiovascolari. Due facce della stessa medaglia. Le ultime novità

Il cardiodiabetologo: non è solo una questione di glicemia

I nuovi farmaci antiobesità hanno avuto la capacità di rilanciare e trasformare il ruolo del cardiologo, ora un cardio-diabetologo, che ha in carico la valutazione di tutto l’assetto cardio-metabolico del paziente. Infatti, la gestione clinica dei pazienti con T2D si è evoluta notevolmente nell’ultimo decennio.

«Le strategie di riduzione intensiva del glucosio avevano fino ad allora fallito nel ridurre in maniera convincente morbilità e mortalità cardiovascolari. Tale sostanziale fallimento ha portato per anni alla percezione tra i cardiologi che il controllo di altri fattori di rischio cardiovascolare, quali la pressione arteriosa e il colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità, fossero le sole misure efficaci nel ridurre il rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 2. Recentemente, tuttavia, diversi studi clinici con nuovi farmaci ipoglicemizzanti hanno dimostrato una significativa riduzione degli eventi avversi cardiovascolari maggiori. Un risultato dovuto alle proprietà ipoglicemizzanti di questi farmaci. Pertanto, i risultati di questi studi clinici randomizzati hanno modificato in maniera sostanziale il trattamento dei pazienti con T2D, spostando l’attenzione dal semplice controllo glicemico all’intervento “cardio-metabolico», con indicazioni ora date per la riduzione del rischio cardiovascolare per tre degli SGLT2i (empagliflozin, canagliflozin e dapagliflozin) e per tre GLP-1 RA (liraglutide, dulaglutide e semaglutide) negli Stati Uniti, in Europa, e in molti altri Paesi.

Numerose sono le evidenze da studi clinici relativi agli effetti cardioprotettivi degli inibitori di SGLT2 e degli agonisti del recettore GLP-1. I dati di più studi condotti su questi farmaci hanno dimostrato la loro efficacia nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari avversi maggiori, quali morte cardiovascolare, infarto miocardico e ictus. Inoltre, sempre da questi studi è emerso come la presenza o l’assenza di malattia cardiovascolare aterosclerotica non modificasse l’associazione di efficacia del trattamento sui MACE (eventi coronarici, eventi cerebrovascolari, insufficienza cardiaca, nefropatia, fibrillazione atriale e mortalità). Relativamente a ciascun componente dei MACE, inoltre, tali farmaci riducono il rischio di morte cardiovascolare e la mortalità per tutte le cause, ma non il rischio di ictus.

Sebbene ad oggi gli SGLT2i e i GLP-1 RA abbiano diverse indicazioni per la riduzione del rischio di malattie cardiovascolari in diverse linee guida e raccomandazioni di società internazionali, il loro utilizzo cardiologico è ancora, e ingiustificatamente, inferiore al loro potenziale. Sono stati identificati diversi ostacoli alla reticenza prescrittiva da parte dei cardiologi, e quindi proposti interventi per ottimizzare l’adozione di terapie preventive cardiovascolari.

L’impiego di questi farmaci cardio-metabolici è alla base della recente evoluzione che li considera non più solo agenti ipoglicemizzanti, bensì farmaci con importanti effetti di riduzione del rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici come prevenzione cardiovascolare primaria e secondaria. Ma anche nell’ambito degli stati disglicemici che precedono lo sviluppo di diabete conclamato.

Nel caso degli SGLT2i gli effetti sullo scompenso cardiaco appaiono indipendenti anche dalla situazione di pre-diabete. Questo è essenziale per comprendere che essi rappresentino una pietra miliare dell’armamentario terapeutico contemporaneo. Che il cardiologo deve conoscere e impiegare in maniera complementare e indipendentemente dai diabetologi.

Il punto sull’obesità: rischio cardiovascolare e novità terapeutiche

Negli ultimi anni un crescente numero di evidenze ha dimostrato uno stretto legame tra obesità e rischio cardiovascolare. Ne è emerso il concetto di “sindrome cardiovascolare-renale-metabolica” (CKM). Una condizione patologica derivante da interazioni tra obesità, diabete mellito di tipo 2, malattia renale cronica e malattia cardiovascolare (tra cui scompenso cardiaco, fibrillazione atriale, malattia aterosclerotica coronarica, stroke e malattia arteriosa periferica). Sia a rischio che conclamata.

Di recente, l’American Heart Association ha proposto uno staging “fisiopatologico” della sindrome cardiovascolare-renale-metabolica Identificando come stadio iniziale la presenza di tessuto adiposo o “adiposità” in eccesso (per BMI ≥25 kg/m2 o obesità viscerale) oppure disfunzionale (per ridotta tolleranza al glucosio o stato di pre-diabete).

Tale adiposità conduce progressivamente alla insorgenza di fattori di rischio metabolici quali dislipidemia, ipertensione arteriosa, diabete e/o sindrome cardiovascolare-renale-metabolica. Per poi portare alla malattia cardiovascolare subclinica o alla presenza di equivalenti di rischio. Fino ad arrivare alla malattia cardiovascolare clinicamente conclamata.

L’adiposità in eccesso o disfunzionale rappresenta, dunque, il fattore fisiopatologico chiave delle conseguenze multi-sistemiche della CKM. Che vede negli eventi cardiovascolari e nella mortalità cardiovascolare la sua manifestazione clinica più significativa.

Il trattamento farmacologico della obesità viene raccomandato per BMI ≥30 kg/m2, oppure ≥27 kg/m2 in presenza di una o più comorbidità ad essa correlate. Ad oggi risultano approvati sei farmaci per la gestione a lungo termine della obesità non sindromica.

Tali molecole portano a un calo di peso e ad un miglioramento dei parametri metabolici con potenza ed effetto variabili e, tra queste, semaglutide e tirzepatide. hanno dimostrato la maggiore efficacia. La semaglutide è più efficace nella riduzione del peso corporeo, nonchè l’unica molecola ad avere ad oggi dimostrato, grazie a studio SELECT, una riduzione significativa del rischio cardiovascolare in pazienti affetti da obesità, non diabetici e con malattia cardiovascolare preesistente. I risultati dello studio SELECT hanno la potenzialità per rappresentare un punto di svolta nella pratica clinica e per condizionare una ricaduta notevole in termini di riduzione della morbidità e mortalità cardiovascolare nell’ambito della prevenzione secondaria.

Inoltre, insieme a tirzepatide, trova potenzialità anche nel fenotipo di HFpEF relato alla obesità, avendo dimostrato di poter ridurre il rischio di scompenso cardiaco“worsening” in un ambito dove vi è da sempre una paucità di trattamenti efficaci.

Nel futuro sarà sicuramente da valutare l’impatto sugli outcome cardiovascolari-renali-metabolici della terapia di associazione con GLP-1 RA e SGLT2-i.

Nel mentre rimaniamo in attesa di vedere come le agenzie regolatorie del farmaco e le linee guida internazionali recepiranno le evidenze di semaglutide e tirzepatide nel collocamento dell’obesità e del rischio cardiovascolare.

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Mariella Belloni (Vicecaporedattore)
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