Carbofobia
Da low carb a zero carb, i problemi dell'odierno terrore per i carboidrati.
Zona, Chetogenica, Metabolica, Atkins, Body Opus, Paleolitica, ABCDE… Il trend attuale sembra essere quello di sparare “a zero” - è proprio il caso si dirlo - contro i carboidrati. Anzi, è diventata un’abitudine talmente consolidata che oggi il vero trend potrebbe paradossalmente essere una loro rivalutazione. Dall’attacco, più o meno giustificabile, nei confronti degli abusi di fine secolo scorso, si è passati ad una pericolosa demonizzazione che sta portando a restrizioni glucidiche così radicali da sfiorare la follia. Qualunque quantità è sempre eccessiva e allora si scende sempre più, fino ad arrivare vicino all’azzeramento, e da una low-carb iniziale ci si ritrova molto a seguire una zero-carb. E questo magari perché si è rimasti inebetiti leggendo che l’uomo di Neanderthal non mangiasse i maccheroni o che Lucy (la nostra antenata più remota) non avesse la cellulite.
Terrore di qualunque forma di glucide, diete prive di carboidrati in qualunque periodo dell’anno, allenamenti ipercatabolici in un contesto già supercatabolico, stanchi, spossati, irritati, assonnati. C’è veramente bisogno di ridursi così?
Primo problema: gli enzimi fanno le valigie
Meno glicogeno c’è, tanto più tempo serve alla sua ricostituzione. Quando la dimensione della molecola di glicogeno si riduce molto, gli enzimi responsabili della sua resintesi, che normalmente “vivono” su di esso, “traslocano” e vengono inattivati.
Questo è chiaramente quello che succede in seguito ad allenamento e ancor di più se svolto in low-carb: la capacità di recupero è ridotta (1). E l’attività classicamente anaerobica svolta in palestra attinge quasi esclusivamente al glicogeno muscolare. Perciò, gli allenamenti andrebbero opportunamente calibrati in cicli low-carb.
Secondo problema: il muscolo pensa "ai fatti suoi"
Mentre il glicogeno epatico costituisce una riserva per tutto il corpo, il muscolo, essendo sprovvisto dell’enzima necessario, non può riversare glucosio in circolo, ma può utilizzare il suo glicogeno solo in loco. La neoglucogenesi nel muscolo, d’altra parte, è alquanto scarsa, per cui, quando il glicogeno si esaurisce, l’acido lattico formatosi viene immesso in circolo e portato al fegato, dove viene trasformato in glucosio e come tale riportato al muscolo. Ma il glucosio a questo punto vi giungerà molto lentamente a causa dello schiacciamento dei vasi.
Terzo problema: un mare acido
Sì, ma l’atleta allenato è capace di utilizzare il lattato prodotto, si obietterà. È vero: tanto più un muscolo è allenato, tanto meno lattato rilascerà in circolo. In circolo! Ma il lattato verrà pur sempre prodotto e come tale causerà un calo del pH intramuscolare (ma anche di quello ematico, perché una quota, volenti o nolenti, andrà inevitabilmente in circolo). Questa condizione di acidosi contribuirà a determinare un calo della resa atletica (2).
L’acidosi metabolica, tra l’altro, è già più alta negli atleti: allenamento anaerobico, alte proteine, bibite light a go-go, alcuni farmaci [clenbuterolo, metformina (3), fenformina etc.], per cui una low-carb, con la sua “fedele” chetosi, non farà altro che appesantire questa situazione.
Quarto problema: la prigione e l’ora d’aria
Inutile dire: “in ricarica smettere di mangiare quando si comincia a sentirsi pieni”. C’è poco da fare: lunghi periodi di privazione totale o semi-totale di carboidrati portano a giorni (rigorosamente calcolati!) di… sciacallaggio alimentare! Altro che ricarica: si divorerà tutto quello che di commestibile ci sarà intorno, con ben fisso il pensiero (terrore) che dal giorno dopo si ripiomberà nuovamente “in prigione”. Non solo carbo-craving, ma anche lipo-craving: dolci, salumi, formaggi, gelati, gelatai, gelaterie… tutto sarà fatto fuori nel più breve tempo possibile. E non ci si sentirà mai (mentalmente) “pieni”. Simili comportamenti sono prodromi bulimici, che alla lunga sconfineranno in una maniacale attenzione per ogni grammo di glucide in più. Attenzione che permarrà anche al momento del rientro ad un regime più bilanciato, quando tra l’altro i chili persi verranno ripresi tutti con gli interessi (refeeding-rebound).
Quinto problema: la fornace si spegne
In un contesto low-carb, come pure nell’esercizio prolungato, la conversione di T4 in T3 (la forma attiva) è alquanto inibita, mentre è attivata quella di T4 in T3-inversa (reverse-T3), inattiva: ne deriva un rallentamento del metabolismo, simile a quello che si manifesta nell’anziano (4). È una sorta di protezione attuata dall’organismo in una situazione di pericolo, quale può essere un certo tipo di dieta, di allenamento e la T3 stessa, al fine di limitare la disgregazione della massa magra.
Lo shift e l’eroe
Ti intestardisci a consumare 20-30 grammi di carboidrati al giorno per sei o più (anche molti di più!) giorni consecutivi, costruendoti paranoie sul fatto che un carciofo abbia un grammo in più di carboidrati rispetto ad un finocchio. Sei dove ti hanno detto di dover essere: in pieno shift metabolico. Il cervello ti chiede zuccheri. Tu vuoi zuccheri! Ma cerchi di resistere, strenuamente, in ogni modo. Ti ergi a paladino dei chetoni. Un moderno Tantalo autoimmolatosi a patire il tormento eterno della fame.
Al quarto giorno di scarica non vorresti proprio andare in palestra. Al quinto stramazzi ai piedi della press. Al sesto non ti alzeresti dal letto. Ma alla fine ti rassegni, concludendo che “vabbè, ci si abitua a convivere con tali sintomi…”.
Di nuovo: c’è veramente bisogno di ridursi così?
Il ciclo di 5 giorni
Il regime ipoglucidico dovrebbe essere protratto per tre giorni: 2 grammi di carboidrati per ogni chilo di massa magra dovrebbero consentire in questa fase una buona deplezione dei depositi di glicogeno.
Poi, subito dopo la fine dell’ultimo allenamento in fase ipoglicemica (possibilmente svolto al mattino per avere più tempo per ricaricare), si inizierà il reintegro glucidico, considerandolo in due tempi (5): rapido nelle prime 24 ore di ricarica, quando sarà esaltata l’attività della glicogeno-sintetasi, l’enzima deputato allo stoccaggio del glicogeno (si potranno ora assumere fino a 15-20 grammi di carboidrati per ogni kg di massa magra, prediligendo nelle prime 12 ore le forme semplici); meno rapido nelle successive ore (sarà ora necessario adeguare l’apporto glucidico a circa 10-15 g/kg di massa magra in seconda giornata e a 8-10 grammi in terza, preferendo ora le forme complesse).
Diminuendo la quota glucidica, si asseconderà la supercompensazione dei depositi e non ci sarà pericolo di “far traboccare l’acqua dal vaso”.
InteGraaltori
Un cenno infine all’integrazione. Un esempio per tutti: il potassio. La condizione di acidosi in cui ci si trova in scarica (e perciò anche a inizio ricarica), avrà causato fuoriuscita del minerale dalle cellule, quindi iperkaliemia (aumento delle concentrazioni nel sangue): ne consegue che il potassio non va mai somministrato a inizio ricarica, ma solo quando, corretta l’acidosi, sarà rientrato nelle cellule. A cosa si assiste di solito, invece? All’esatto contrario.
È solo un esempio, ma basta per rendersi conto della situazione imperante nel settore. Stregoni, intrugli esoterici e formule magiche: potassio, clenbuterolo, metformina, lingue di rospi, code di topi, ali di pipistrelli… Brodaglie rette alla stregua del Sacro Graal e trangugiate negli spogliatoi con ascetico diniego culturistico.
Non sono contro gli integratori, anzi: sono solo contrario alle pratiche seguite senza criterio e sulla scia del sentito dire.
L’allenamento: come demolire il glicogeno
Le low-carb mal si abbinano ad allenamenti ad alta intensità. Occorre perciò strutturare le sedute in modo da assecondare sia la fisiologia che il regime ipoglucidico in atto.
Solo il primo giorno di rientro dopo la ricarica, in cui si potrà contare su depositi pieni, sarà giustificato un allenamento pienamente “heavy”. Seduta glicolitica: basse ripetizioni, rest-pause, grossi carichi, grosso pump.
Il secondo giorno è il giorno chiave per la deplezione ottimale dei depositi di glicogeno. A inizio allenamento, l’apporto di sangue e ossigeno non è ancora adeguato alle richieste, per cui, sulla scia del giorno prima, il lavoro sarà indirizzato alle fibre II (glicolitiche), per degradare ancor di più il già basso livello di glicogeno. Una volta depleto questo, il lattato prodotto dalle fibre II inizierà a venire ossidato dalle I del muscolo stesso, per cui è proprio a quest’ultime che dovrà ora essere rivolto il carico allenante: alte ripetizioni, superserie, stripping.
Giunti così a fine seduta, l’apporto di ossigeno sarà finalmente appropriato per l’ossidazione lipidica (cardio).
Il terzo giorno, il livello di partenza di glicogeno sarà ulteriormente basso, per cui in quest’ultima fase di scarica l’allenamento dovrà essere ancora meno intenso: grossi gruppi muscolari, alte ripetizioni, basso recupero e cardio.
I livelli di glicogeno ottenuti con una ricarica glucidica svolta in maniera ottimale dovrebbero mantenersi per circa tre giorni senza allenarsi. Alla ripresa degli allenamenti, si potrà contare su depositi pieni e quindi si potrà ricominciare il ciclo con il primo allenamento nuovamente svolto ad intensità alta.
Conclusioni
Le teorie che vedono nell’uomo preistorico una sorta di dietista ante litteram sono certamente affascinanti e possono costituire un ottimo spunto su cui costruire interessanti ipotesi nutrizionali.
Il primo obiettivo di un atleta resta comunque quello di disporre di riserve adeguate. Perciò, tutte le metodiche che propongono deplezioni croniche dei depositi di glicogeno dovrebbero essere attentamente vagliate prima di venir poste in essere.
Anni fa i carboidrati erano idolatrati, oggi sono odiati, tra qualche tempo torneranno ad essere rivalutati. È la natura dell’uomo, in continua caccia del “nuovo”… e si sa, la ricerca di innovazione conduce spesso in posti in cui si è già stati.
BIBLIOGRAFIA
1. Rogero MM et al, Neuroendocrine and nutritional aspects of overtraining, Arq Bras Endocrinol Metab, 49 (3), 359-368, 2005.
2. Lambert CP, Flynn M.G., Fatigue during high-intensity intermittent exercise: application to bodybuilding, Sports Med, 32 (8), 511-522, 2002.
3. Khan JK et al, Lactic acidemia associated with metformin, Ann Pharmacother, 37 (1), 66-69, 2003.
4. Pinchera A. et al, The aging thyroid, Endocr Rev, 16 (6), 686-715, 1995.
5. Ivy JL, Dietary strategies to promote glycogen synthesis after exercise, Can J Appl Physiol, 26, Suppl S236-45, 2001.
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